Le parole che ho imparato [tl;rl feat. Donata Columbro]
Issue n.84
Se ti chiamano a parlare, se ti invitano a scrivere, per favore: devi dire di sì. Anche se sei stanca, se devi dormire un’ora in meno per scrivere quel pezzo (...). Non è il momento di riposarsi ragazze, è il momento di lottare. Ed esserci. Donata Columbro
...
Per questo sapevo che non mi avrebbe detto di no.
Questa è la penultima newsletter prima della pausa estiva. Come ho usato questo tempo? A guardare la scaletta del libro nuovo. A dividere i miei appunti tra i capitoli, a parlarne con gli amici e farmi venire idee (su come riuscire a far tutto in tempo: c'è tempo, ma non troppo. Questo sempre, nella vita). Ma non potevo dire di no, giusto?
Dopo Martino Pietropoli, Annalisa Monfreda, Daniela Farnese, Claudio Cammarano, Gianfranco Chicco e Claudia Torresani, oggi la mia newsletter non scritta da me è di Donata Columbro. Quella brava. ...
Fattoide è una delle parole che ho imparato in questi mesi di letture notturne. Un fattoide è “un fatto (o un dato statistico) non vero, ma duro a morire come un androide da film di fantascienza, anche perché sembra vero”. Me l’ha spiegato Caroline Criado Perez nel libro Invisibili, dove racconta che quando alle donne il mondo sembra essere costruito apposta per tenerle escluse da posizioni manageriali - ma anche dai bagni pubblici, e allego data viz - la percezione è confermata dai dati, che in molti casi non vengono nemmeno raccolti o analizzati. Un fattoide è per esempio la frase «le risorse del nucleo familiare sono distribuite in pari misura fra tutti i membri», ma non ci sono dati disaggregati che lo confermano, e questo comporta il rischio che le misure a favore del reddito vengano allocate in modo da peggiorare la condizione di povertà femminile.
(Vi ho già persi? Non cliccate unsubscribe che altrimenti Domitilla se la prende con me!)
In questi mesi ho anche scoperto l’esistenza della chemofobia, “la paura della contaminazione chimica”. Spiega per esempio l’esistenza degli antivaccinisti, oppure perché quando escono nuove scoperte scientifiche su sostanze chimiche in forma di sintesi che si trovano anche negli alimenti alcuni nostri amici decidono di smettere di bere vino con solfiti o biscotti industriali. La chemofobia non si ferma davanti a niente, il chemofobico o la chemofobica non guardano ai dati per capire se veramente moriremo tutti a causa di una merendina, perché il loro livello di paura dipende unicamente dalla natura “chimica” della sostanza invisibile. Questo me l’ha spiegato Hans Rosling in Factfulness, un libro che dovrebbe essere adottato come testo di ingresso, non test, in tutte le facoltà universitarie. Prima lo leggi, poi cominci a dare altri esami.
Infine c’è l’apofenia: la nostra tendenza a vedere pattern e correlazioni tra fenomeni anche quando non ci sono. L’ho scoperta studiando L’arte del vero di Alberto Cairo, che sa insegnare la data visualization anche a chi ha dimenticato tutta la statistica dell’università o crede che per creare un grafico bisogna saper disegnare (per mia fortuna no!).
Queste parole le ho scritte anche sul mio diario della pandemia: non perché voglia scriverne un romanzo, e Daniela Farnese ci ha messo in guardia dal farlo proprio su qualche numero fa di questa newsletter, ma perché voglio ricordarmi di come ho passato i mesi del lockdown e quelli successivi: a studiare cose di cui non sapevo o non ricordavo nulla.
Grazie a questo sforzo mentale sono uscita viva e persino iper-attiva da giornate lavorative divise tra un bambino di quasi due anni, la preoccupazione del contagio - anche per la mia famiglia lontana - e il “normale” lavoro. E le virgolette qui spiegano tutto.
Mi chiamo Donata Columbro e sono una giornalista. Dove scrivi? Da nessuna parte e ovunque, potrei rispondere, perché sono anche un’imprenditrice. Ho lavorato in redazioni, mi sono occupata di attivismo digitale e cooperazione internazionale, ma oggi - di giorno - mi occupo di divulgazione della cultura dei dati con i miei soci di Dataninja. Sono La Preside della Dataninja School, come mi chiamano affettuosamente i miei soci. Di notte continuo a fare l’attivista. La pandemia ci ha fatto esplodere in faccia il problema della data literacy, cioè della (mancata) alfabetizzazione e capacità di leggere e capire i dati - e i grafici.
Alberto Cairo la chiama anche graphicacy. I dati sono arrivati in tv in prima serata, sulle nostre chat di whatsapp, li abbiamo attesi alle 18 come il messaggio del fidanzato, abbiamo cercato di capirli e usarli per prendere decisioni quotidiane. Se andare a fare la spesa oppure ordinarla online, se tornare a lavorare in ufficio o continuare da casa, se indossare la mascherina per strada, e molto altro. Quei dati influenzano la nostra vita presente e futura: il lavoro che abbiamo o non abbiamo più, le scuole che (non) riaprono, come sarà il rapporto con la nostra famiglia a distanza, se il turismo sarà ancora quello di prima, e così via. Solo che a trattare tutti questi dati, a comunicarli, a capirli, non eravamo pronti.
“Vorrei dati più precisi” ha detto il viceministro alla salute Sileri qualche mese fa (video al min 5:40).
Anche noi, viceministro caro, ma se non puoi chiederli tu, con l’autorità che hai, figurati noi.
Per molti mesi le Regioni infatti hanno fornito dati disomogenei: un guarito in Lombardia non aveva lo stesso significato che nel Lazio. Come si può fermare una pandemia se non ci mettiamo neanche d’accordo sulle parole che descrivono i numeri? E non parliamo di come quest’ultimi ci sono stati comunicati: chi li mandava solo in pdf, altri solo via social.
A febbraio nemmeno la Protezione civile pubblicava questi dati nel formato migliore, cioè quello aperto, non in pdf quindi ma libero e processabile dai nostri computer per essere riutilizzato. Un gruppo di attivisti si è dovuto mobilitare facendo un’azione prima para-legale per scaricarli automaticamente e poi finalmente ha convinto la Protezione civile a rilasciare giornalmente i dati nel formato migliore.
C’è un'ultima bellissima parola, anzi due, che credo di voler coccolare e quindi approfondire nei prossimi mesi: è il concetto di data feminism e ha a che fare con il potere, chi lo detiene e chi no: questo me lo insegnano Catherine D’Ignazio e Lauren F. Klein, ma non dico di più, sto ancora studiando.
COSE CHE STO
leggendo: Furore la sera, libri sui dati di giorno;
guardando: The Politician ma la seconda serie non è così raccomandabile come la prima, meglio la quarta di The Good Fight;
ascoltando: il podcast di Francesco Costa e quello di John Modupe.
COSE CHE HO SALVATO NEI PREFERITI DELL'INTERNET
Il sito African Digital Art perché se credi che l’arte africana siano batik e statuette di ebano sei fuori strada.
Il lavoro di data attivismo di Mona Chalabi, le sue data visualization illustrate e il modo che ha per renderci davvero partecipi dei dati (per esempio con lo swipe, e quindi con le nostre dita, per vedere come finisce un grafico).
I laboratori di psicogeografia di Sara Ricciardi (nelle storie in evidenza).
🗄️ DALL'ARCHIVIO
Cosa fare per migranti e rifugiati in questo clima politico - del 2018 ma ci sono spunti attuali, purtroppo.
RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI
Ho un blog dal 2003, che si chiama Semerssuaq. La prima newsletter l'ho mandata nel 2012 e l'archivio dell'ultimo anno è qui.
💌 Ti è piaciuta questa newsletter? L'ha scritta per noi Donata Columbro, dentro ci sono 32 link e 1435 parole e puoi inoltrarle tutte a qualcuno a cui vorresti farle leggere. A me farebbe piacere, penso anche a lei.
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✏️ Hai mai pensato di scriverne una tua? Fossi in te partirei da qui: Caro amico mi iscrivo, di Nicole Zavagnin (sono di parte: parla anche di me).
La prossima newsletter con i link delle cose che ha letto qualcun altro arriva quindi giovedì prossimo. Poi facciamo una pausa.
❤️ Nel frattempo fai cose belle anche tu.
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Semerssuaq, il blog di Domitilla Ferrari
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